Ciò che contribuisce, inoltre, a mantenere il disturbo sono l’evitamento delle situazioni temute (“Non intervengo mai in pubblico, evito di parlare”) e i comportamenti protettivi (“Cerco di tenere le mani lungo i fianchi così non si muovono e non si vede che sono sudate e cerco di fare respiri profondi”). La persona con fobia sociale si focalizza troppo sulle proprie sensazioni interne e sui propri comportamenti (tremare, arrossire, sudare, balbettare), si monitorizza continuamente, la sua attenzione è solo su di sé, con una preoccupazione che aumenta in questo modo la sua possibilità di arrossire, balbettare, sudare, tremare (sovrastima l’importanza dei segnali fisiologici nella performance). Anche i comportamenti protettivi (sudare, balbettare, tremare), invece di essere di aiuto, causano innanzi tutto un aumento di essi e incentivano ancora di più la focalizzazione su se stessi, influenzando negativamente il giudizio degli altri (perché di fatto si appare più impacciati). Poiché è impossibile controllare direttamente i segnali fisiologici dell’ansia l’attenzione sulla propria ansia favorisce il processo inverso, ossia la aumenta, per cui diventano ancora più incontrollabili le proprie emozioni (di ansia e di vergogna). Si aggiungerà perciò all’ansia e alla vergogna iniziale per la propria prestazione, anche la vergogna per le proprie emozioni valutate come eccessive. L’iperfocalizzazione sui propri stati interni e sulla rappresentazione di sé favorirà ulteriormente le fantasie ansiogene e renderà impossibile un confronto con la realtà interpersonale.
Infatti Clark Wells (1995, 1997) evidenziano il ruolo giocato dai processi autovalutativi e dai meccanismi cognitivi e comportamentali che mantengono il disturbo. Mentre Mancini e Orazi (1999, 2004, 2006) enfatizzano il ruolo giocato dalla metavergogna o vergogna della vergogna (“Tutti si stanno accorgendo che sono in difficoltà e che sto diventando rosso, insomma che mi sto vergognando!”). Il fobico sociale in situazioni sociali critiche si allarma e focalizza l’attenzione sulla possibilità di provare vergogna, evento giudicato grave e inaccettabile. La meta vergogna ha, dunque, un effetto duplice: rende più frequente, drammatica e paradossale la reazione emotiva (aumenta la prevenzione o difesa, che renderà ancora più frequente e intensa la reazione, poiché ogni segnale di vergogna si trasformerà in vergogna piena) e orienta i processi cognitivi, il controllo delle ipotesi negative, ovvero la persona tenderà a vedere più facilmente prove del fatto che viene giudicato negativamente.
La terapia cognitivo-comportamentale mirando alla alleanza terapeutica come collaborazione con il paziente (empirismo collaborativo) spiega alla persona il suo funzionamento, il modello di questo disturbo in generale, il ruolo dei vari elementi nel mantenimento del suo disagio, i circoli viziosi; insieme si prendono in considerazione le convinzioni e i pensieri automatici negativi, per esaminare le prove che la persona porta a loro sostegno, quindi discuterle, relativizzarle, elaborarle in modo più realistico e decatastrofizzarle; si lavora sul concetto che la persona ha di sé (“Non son capace ad esprimermi”), cambiando la percezione e aumentando la sicurezza e l’autostima, per giungere ad un distanziamento critico dalle rappresentazioni minacciose, dai ricordi dolorosi nei termini di una loro minore drammaticità (ciò implica un’attenuazione dell’iperinvestimento degli scopi personali, ovvero eliminare a qualunque costo il rischio di una brutta figura).